~ ..la Volpe Funambola ammazzaprincipi.. ~
~ Fragile ~

"...Sometimes it feels it would be easier to fall
than to flutter in the air with these wings so weak and torn..."

Original Blog -> Nepenthe


- EviLfloWeR -

* photos on flickr *
Lunacy 2 - Lunacy 3 - Lunacy 4
Lunacy 5 - Lunacy 6 - Lunacy 7 - Lunacy 8
Lunacy Ph

"Do asilo dentro di me come a un nemico che temo d’offendere,
un cuore eccessivamente spontaneo
che sente tutto ciò che sogno come se fosse reale;
che accompagna col piede la melodia
delle canzoni che il mio pensiero canta,
tristi canzoni, come le strade strette quando piove.
"

- F. Pessoa -

~ REMEDY LANE ~

- We’re going nowhere...All the way to nowhere –



"Forse sono l’uomo con le leggendarie quattro mani
Per toccare, per curare, implorare e strangolare.
Ma io non so chi sono,
e tu ancora non sai chi sono..."

F. R.

giovedì 26 gennaio 2012

M. L. Brigge



Spesso mi è accaduto di implorare la vita, o forse il cielo o un qualche dio, affinché nei momenti più bui mi riportasse a “casa”. Ma altrettanto spesso poi, sono stata costretta a chiedermi cosa quel termine significasse.
“Take me home”…portami dove sono al sicuro, dove posso leccarmi le ferite e ricostruire la serenità.

Ho creduto per molti anni che la tanto desiderata “casa” corrispondesse a delle persone specifiche, o più probabilmente ad una soltanto.
Case costruite una dopo l’altra, sorte come fari nella tempesta ogni volta più luminosi. Peccato che non tutte si siano dimostrate tanto resistenti quanto le avrei volute.

Il fatto è che credo ci sia un errore di fondo, che mi ha portato a trascurare quel tipo di casa che non ha niente a che fare con carne ed ossa, che coinvolge gli affetti solo indirettamente.
Quei mattoni che stanno lì, indipendentemente da tutto e da tutti, e che per qualche coincidenza del destino un giorno diventano “tuoi”. E può essere che ci cresci dentro per anni, che li scaldi e li accarezzi e ci sbatti contro, dando per scontato che loro restino lì. Hanno un odore particolare i mattoni che diventano la tua casa, ma te ne accorgi solo quando non sei più lì, e in un posto diverso realizzi che qualcosa ti manca.
Eppure sono solo mattoni e cemento, così comuni e anonimi che non ti riesce affatto difficile convincerti che anche tra quelli nuovi non ci stai poi male.

Si prende talmente bene la forma delle proprie abitudini, che quando le cose cambiano e nulla è più scontato come lo era prima, ogni cosa comincia ad assumere valori e connotazioni che non avremmo mai creduto possibili.



E’ come se una tormenta si fosse abbattuta sulla mia esistenza e avesse creato una gran confusione, facendo volare le cose per aria con prepotenza, tra le grinfie di un uragano impetuoso, per poi placarsi lentamente e lasciar ricadere le cose qua e la, in ordine casuale. Sono esattamente le stesse cose di prima, ma rimescolate assumono forme e significati diversi: è sempre la mia vita, ma non assomiglia affatto a quella di prima.
Perché si può anche provare a riordinare le cose, a rimetterle dove stavano prima, ma è come se non funzionassero più: gli incastri si sono danneggiati.


Ogni tanto torno a casa mia, e la vedo sempre più bella. Non che prima non lo fosse…ho sempre adorato moltissime cose del posto in cui sono cresciuta, e odiate altrettante. Ma come i più grandi amori, anche questo è uno di quelli combattuti e illogici.
Adesso però riesco a guardarla con il distacco dovuto, e paradossalmente posso sentirla più mia, posso sentire quell’alone di “casa” che prima mi sfuggiva da sotto il naso.
E questo non vuol dire che mi manca, ma solo che la vedo più bella, e che mi piace così.

Nonostante questo, non mi risparmio le maledizioni per i chilometri infiniti, per quelle strade sempre più strette che non finiscono mai, che mi fanno pentire di aver deciso di partire. Ma poi sento il profumo della campagna e respiro a pieni polmoni, mi riempio gli occhi di alberi e terra e orizzonti sgombri da tutte le cianfrusaglie cittadine, e saluto il cielo che non è così immenso e colorato in nessun altro luogo al mondo.
Quel cielo gelido di cui conosco tutte le stelle per nome.

Credo di aver riscoperto qualcosa di magico da quando non vivo più lì, come il giardino segreto della mia infanzia, o forse solo un rituale di gesti spontanei che mi danno il benvenuto a “casa”.
E allora ogni angolo di quel luogo tanto familiare mi sembra degno di esser osservato più a lungo, di esser investito di vita, così che possa assorbirla e tenerla lì.



Con queste premesse, Reffy diventa più indispensabile che mai. E’ il mio terzo occhio, che sta a metà strada tra il senso della vista e il concetto della memoria.
Grazie a lei posso tramutare in pensiero e sensazione tangibile quel che altrimenti rimarrebbe inespresso, intrappolato soltanto nelle recondite vie del mio cervello.

E mi diverte immaginarmi come un moderno Vermeer, mentre passo il tempo a scoprire angoli di banalissima quotidianità così degni di esser immortalati.
Lui dipingeva soltanto scene che osservava in casa sua, o al massimo vedute di città dalla finestra del suo atelier. Ed era un minuscolo cosmo fatto di luci e riverberi di colore che splendevano di vita semplice. Niente di speciale, a ben osservare quei quadri.
Niente di speciale ma tutto di vitale.
E la semplicità che suscita la meraviglia è forse il più alto fine che un artista dovrebbe porsi. Oh beh…molti non sarebbero d’accordo. Ma personalmente quando ho letto per la prima volta Maxence Fermine ho capito che era così che volevo imparare a scrivere, un giorno, se mai fossi riuscita a realizzare i miei desideri: poche parole di una semplicità e di una bellezza disarmanti.

A ben pensarci, ora che penso alla scrittura e alla sua essenza vitale, non mi è poi così nuova la tendenza a soffermarmi ad osservare le piccole cose intorno a me, nell’ambiente quotidiano.
Ripenso in particolare alle centinaia di pagine di diario che ho scritto in quella casa, tutte introdotte da una qualche digressione su quel che osservavo intorno a me in quel momento.
Quanto inchiostro versato quasi quotidianamente per immortalare pensieri e paranoie?
E poi un bel giorno basta. Come i quadri di Baricco che decidono di cadere. L’ultima pagina è ancora incompiuta, e non l’ho toccata più.
Anche ora che me lo chiedo, non so sinceramente spiegarmi perché ho smesso.

Mi esprimo in altre forme? Certo..è probabile. Di scrivere non ho mai smesso. Ma realizzo solo adesso che smettendo di scrivere assiduamente un diario personale, dove riversavo pensieri senza limiti o censure, ho perso irrimediabilmente troppi pezzi per strada.
E allora mi chiedo se mi ricorderò tra qualche anno delle piccole cazzate quotidiane, dell’odore dei mattoni nuovi pieni di muffa, di come cambia la luce al tramonto o di quante stelle ho attaccate all’armadio, del gusto del gorgonzola mischiato a qualsiasi cibo o dei wrauurr che riecheggiano nei discorsi tra due idioti innamorati.



Ma poi mi rendo conto che non è solo il presente ad esser condannato all’oblio, perché più mi guardo intorno, accompagnata dal leggero rumore dell’obiettivo che cerca il fuoco, che troppi ricordi si accalcano alla soglia della memoria, rivendicando il loro diritto mancato di essere immortalati.
Se chiudo gli occhi e mi fermo ad ascoltarli, seduta qui, al centro di quella “casa” che ad ogni minuto si impone con sempre maggior prepotenza, non riesco a fermare un flusso che mi investe e mi stordisce con la violenza di una terapia “necessaria”.

Capisco allora che non potrò mai raccontare a fondo nulla.
Non potrò mai raccontare dei pomeriggi assolati seduta di fianco al mio cane dietro casa, immaginando storie al di là dell’orizzonte, o delle foglie nel fango e del passaggio segreto tra i bambù.
Della tomba sull’erba e dei temporali estivi nella veranda con nonna.
Del giorno in cui ho visto una volpe, giusto dopo aver sezionato un ranocchio insieme al mio primo grande amore.
O delle lucertole senza coda, e della pioggia incisa sulla mia finestra.
Della persiana serrata dove prima entrava sempre il sole, o della bara chiusa e di tutte le volte che iniziavo a piangere perché mi accorgevo che intorno a me ogni cosa moriva.
Della paura, o della disperazione senza nome. Della voce che consola e delle luci bianche, senza calore.
Dei volti sul muro e delle favole. Di tutti i nomi che ho avuto e le migliaia di storie che ho vissuto.
Dei boschi e dei basilischi, delle viverne e dei giganti del gelo, degli amori senza nome e senza diritto d’esistere.

Dalla realtà alla fantasia il passo è così breve che quasi non vedo il confine, ma accuso l’ostacolo e smetto di pensare.
Ripeto a me stessa che comunque non devo considerarlo tempo perso, e cerco di pensare a come fare in modo che mi torni utile, un giorno.
Quante cose sono stata…tutte e nessuna. E tutte e nessuna porto con me.
Non è bizzarro che il flusso di pensieri si interrompa proprio là dove la memoria si fonde con la fantasia?



Torno alla realtà e osservo i raggi del sole che assumono una tonalità più calda e rosata sfiorando l’orizzonte.
La mia lupa mi sfiora la guancia con la zampa inzaccherata di fango per reclamare altre coccole. Ha gli occhi del colore dei miei capelli, eppure lo so che non è possibile.
Più la guardo e più me ne innamoro, oggi come il primo giorno che l’ho vista in quel canile, quando ho decretato: “è lei, prendo lei”.
E non mi importava se la tizia continuava a ripetermi che sarebbe stata problematica perché era traumatizzata. Io so che lei ha capito subito, quando l’ho guardata negli occhi e le ho promesso che le avrei regalato la libertà, e un giardino immenso, e un mare di affetto. L’ha capito. Anche lei ha scelto, questo l’ho sempre saputo.

Quel che non sapevo è che la mia promessa era incompleta, ma allora non potevo prevedere che in quel quadretto paradisiaco un giorno sarei mancata io.
Però le è rimasto il giardino, la libertà, l’affetto. E lei non è più problematica né traumatizzata. Il suo sguardo è sereno, ed è sempre più bella.



E’ arrivata da me per San Valentino, ormai tre anni fa, in un momento in cui avevo perso l’amore, e non solo nel senso che tutto stava andando a puttane tra due persone che un tempo si amavano, ma in una dimensione più profonda che mi aveva portata a non concepire più l’amore.
Avevo perso una delle più grandi certezze della mia vita ed ero svuotata, completamente. Ma in quel vuoto è arrivata lei, e mi ha insegnato che si possono trovare sempre nuovi modi di amare.
A volte mi manca davvero tanto, mi manca quel suo sguardo consapevole di tutto quel che rimane soltanto tra noi.

Non so perché ho messo in piedi questo flusso di pensieri strampalato, ma arrivata a questo punto mi compiace l’idea di aver iniziato parlando di “casa”, per poi chiudere il cerchio raccontando di Kim.

Se è vero che la libertà è uno stato mentale, allora la casa non è altro che il luogo in cui abbiamo costruito noi stessi, in vista del giorno in cui saremmo stati costretti ad andarcene per il mondo, muniti di una qualche consapevole e tenace identità.




“Nasciamo, per così dire, in qualche modo provvisoriamente;
solo poco alla volta componiamo, in noi,
il luogo della nostra origine
per nascervi a posteriori e ogni giorno sempre più definitivamente.”


- R. M. Rilke -



“Conosco la sensazione
E’ l’essenza
L’essenza della verità
Il momento perfetto
Il momento d’oro
Lo so che lo senti anche tu

Conosco la sensazione
È l’essenza
Non puoi rifiutare l’abbraccio
E’ come il disegno sotto la pelle
Devi sporgerti e tirarlo tutto dentro
E senti che sei arrivato troppo vicino

Così ne ingoi un’altra dose
l’apice della felicità
Ti riempie l’anima



Pensi di non poterne prendere di più
Non vuoi mai lasciarti andare
Per toccare le radici dell’esperienza
Gli ingredienti basilari
Per vedere il bagliore sconosciuto della vita
E sentire lo sporco, l’angoscia, la rabbia e il conflitto

Ama la sicurezza dell’imminente
Ti uccide un po’ alla volta
Culla l’ispirazione
Ti lascerà a contorcerti sul pavimento…

E’ così irreale, ciò che sento
Questo nutrimento, la vita è piegata
In una forma che posso governare
Una spira del destino, tutta mia



Digrigna i denti, non far rumore
Fai un passo e guardati intorno
Stringi il pugno e chiudi gli occhi
Guardati dentro nel profondo, ipnotizzati,
Il sospiro non è che un grido
E questo è quanto

Sì, l’estasi, puoi pregare
Non la lascerai mai scivolare via
Come la canzone sacra che qualcuno canta dentro di te
Come la carne calda dove si conficca la spina
Come il sogno che tu sai un giorno diverrà realtà

Provi a trattenerlo un po’ di più, un po’ più forte
E’ il gioiello della vittoria
L’abisso della miseria
E una volta che ne hai assaggiato l’anima
Ne riconoscerai sempre il sapore
L’attimo di divinità
Bevi il cielo
Tutto il paradiso è tra le tue braccia

Tu sai perché
È proprio qui, in tutto se stesso
E ciò che sei, non c’è niente altro
Stai sviluppando una vita dentro un’altra
Le labbra della meraviglia ti baciano dentro

E quando è finito la sensazione rimane
Ritorna tutto a questo
Il fumo sparisce, vedo cos’è che
Che mi fa sentire così…

E’ così irreale, ciò che sento
Un flusso, vendi l’anima, senti il sangue
Che pompa nelle vene, non puoi spiegare
L’elemento che è tutto
Serra il pugno e chiudi gli occhi



Guardati dentro nel profondo, ipnotizzati,
Sì, l’estasi, puoi pregare
Non la lascerai mai scivolare via

Come l’eco delle risate della tua infanzia, da allora in poi
Come la prima volta che l’amore ti ha costretto a prendere la sua direzione, in silenzio
Come il tuo battito cardiaco quando capisci che stai morendo, ma resisti
Come il modo in cui piangi per un lieto fine, fine…
Lo so.”


(Faith no more – The real thing)

Nessun commento: