~ ..la Volpe Funambola ammazzaprincipi.. ~
~ Fragile ~

"...Sometimes it feels it would be easier to fall
than to flutter in the air with these wings so weak and torn..."

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Lunacy Ph

"Do asilo dentro di me come a un nemico che temo d’offendere,
un cuore eccessivamente spontaneo
che sente tutto ciò che sogno come se fosse reale;
che accompagna col piede la melodia
delle canzoni che il mio pensiero canta,
tristi canzoni, come le strade strette quando piove.
"

- F. Pessoa -

~ REMEDY LANE ~

- We’re going nowhere...All the way to nowhere –



"Forse sono l’uomo con le leggendarie quattro mani
Per toccare, per curare, implorare e strangolare.
Ma io non so chi sono,
e tu ancora non sai chi sono..."

F. R.

venerdì 20 aprile 2012

Qualcosa di intimo..

..come una lettera.

“Ma, al di là di una prospettiva clinica, potremmo riformulare tale linea interpretativa, cogliendo come per la protagonista, attraverso l’atto della scrittura, si tratti di sfondare il quadro fantasmatico che ha costituito la sua storia, la sua filiazione, la trama delle sue origini, per giungere sino al punto più profondo, più opaco, più soggettivo e particolare del suo essere.

Una forma letteraria così peculiare quale il diario, nel percorso accidentato di Adele, diviene l’esperienza più radicale della ricerca di una verità soggettiva che possa palesarsi attraverso la creazione.

Adele, attraverso il suo diario, si espone al confronto con il vuoto, accerchia l’abisso incolmabile da cui è sovrastata e, al contempo, mediante la parola, tenta di nominare, di arginare, di tradurre in segni il residuo enigmatico della perdita.
La scrittura è ciò che, al di là delle erranze, peregrinazioni e inseguimenti, la ancora profondamente al senso del suo esistere.

Le lettere inviate da Adele rappresentano un’altra forma di scrittura, filmata con insistenza da Truffaut.
Si conosce la passione letteraria del regista per l’epistolario, e nei suoi film sfilano le immagini di personaggi ripresi nell’atto di scrivere, leggere e recitare lettere.


La messa in scena della scrittura fa emergere in primo piano non solo l’intervallo fra l’infedeltà ad una legge universale e la fedeltà a quella del proprio desiderio, ma ancor più sottilmente, la non totale coincidenza di Adele a se stessa.”


(R. Salvatore – Uno sguardo sull’origine: la storia di Adele H.)



Già, ho rivisto una volta ancora uno dei classici del cinema che non mi stancherei mai di guardare. “Una storia d’amore” - recita il titolo, ma è così riduttivo.

Adele H. è l’immagine fatta scrittura, è un film che parla della pazzia, della pazzia e della sua cura.

Quel che mi ha colpito, stavolta, è che invece di immedesimarmi pienamente con lei, come sempre mi era accaduto, ho sorpreso me stessa fissare sé stessa con un’espressione un po’ tonta e sbigottita, nell’atto di rimproverarsi.

Sì, perché io non ho quasi più quella scrittura emorragica che tanto mi piaceva, e non ho nemmeno più la voglia autentica e vivace di mettermi a scrivere lettere per qualsiasi scemenza.
E’ diventata una routine pure quella, un vestito merlettato che tiro fuori dall’armadio solo per le feste prestabilite.

Ma qualche giorno fa leggevo le lettere di Magda a Rilke, e mi sono emozionata così tanto da non riuscire più a smettere di leggere.

Ho compreso in un istante che tutto quello che un uomo così straordinario ha scritto e volutamente pubblicato, non è comunque abbastanza per conoscere la parte più autentica della sua umanità.

Ho capito che il suo sentire più vero e profondo era lì, in quelle righe scritte per una sola ed unica destinataria.




“...Tu non sai cosa significhi per me di poterti stare a vedere quando ricami dei fiorellini chiari, di seta, sulla batista bianca – e se poi prendo un libro e leggo ad alta voce, e non posso così più guardarti, non ci sarà però in tutto il mio essere un solo punto che ignori che tu ricami dei fiori di seta sulla batista bianca, e che non si senta perciò come sotto una diretta, sacra protezione, che gli rende quasi impossibile di restar mortale. – Molti anni fa ho trascorso un inverno lontano, in un paese dell’Europa meridionale, in una villa da cui si vedeva il mare oltre il giardino sempre verde: eravamo solo in quattro: tre donne di età diversa ed io; una vecchia signora, la padrona di casa, una vedova, non più giovane e una graziosa giovanetta... C’erano delle sere (di visite ne venivan poche) in cui ci si rifiniva nell’ampio studio, vicino al camino; le signore con un ricamo ed io con un libro – e la serata si concludeva sempre così: la giovinetta sbucciava una mela per me.
Mi crederai, Benvenuta, se ti dico che per anni ed anni ho vissuto di quella mela, che non m’ero dovuto preparare da me? Di quelle serate? Di qualcosa che la prossimità e la dolce occupazione di quelle tre donne sembrava aver creato e raccolto in me? Ma sì, ancora molto tempo dopo, quand’ero già tornato a Parigi, c’era ancora un resto di... (di che mai?) di fermezza d’animo, di consolazione, di dolce refrigerio, nel mio intimo, e lo sentivo che veniva di là; ed era così presente, d’una evidenza così assoluta, che mi sembrava di vederlo svanire e diminuire, con terrore, di giorno in giorno, quanto più lo consumavo. – E là non si trattava che di un gesto! e, pensa, mi ha mantenuto in vita per anni ed anni...”


(Lettera di Rilke a Magda von Hattingberg)



Poi, riflettendoci, mi sono resa conto che non è vero che non scrivo più lettere. Questo blog ne è la prova, in una versione deformata, sì, ma comunque valida.
Una lunga serie di lettere a nessuno.

Forse è ora di fare una variazione sul tema:


Mia cara vecchia amica,

da quanto tempo il mio cuore non indugia più presso di te? Ho perso il conto dei giorni che mi separano dal tempo in cui potevo vederti vivermi accanto. Ma a dire il vero ho perso molte cose, anche quelle che sembravano avere un senso, nel disperato e folle tentativo di riguadagnare me stessa attraverso l’autodistruzione.

Qualche volta però il mio pensiero corre fino a te, che ti sei fatta nuvola evanescente e lontana, che hai assunto i colori di una fantasia che non mi appartiene più.

Così mi fermo a pensarti, e mi chiedo se corri ancora scalza nella Grande Foresta, inseguendo il richiamo dei boschi, il canto del vento, le lacrime del cielo, e l’antica voce delle piante.
Ti immagino raminga nel tuo Giardino Selvaggio, attorniata da quella bellezza che sapevi scovare in ogni angolo di mondo, con gli occhi innocenti di un cerbiatto e l’animo fiero di un leone.

Mi domando se ancora dondoli sulla fune tesa, nell’impossibile tentativo di conciliare il paradosso della tua esistenza.
Se ogni tanto hai ancora paura di morire e piangi guardando le tue mani intrise di sangue, o se invece conservi intatto quel sorriso che sapeva incantare come la prima goccia di rugiada in un’alba piena di sole.

Chissà se ogni tanto cerchi ancora di inseguire il vento, se torni a stenderti sull’erba umida sotto la grande quercia per scoprire se in quell’odore è conservato ancora un po’ di lui.

Come stanno i tuoi occhi così giovani e così pieni di tutto quel che non avresti mai dovuto vedere? E i tuoi artigli? Ancora li affili ogni sera domandandoti quanto altro sangue scorrerà prima che la tua guerra abbia fine?

Non riesco più ad immaginarti con precisione.
Ricordo pochi insignificanti dettagli, come la particolare sfumatura dei tuoi capelli colpiti da un raggio di sole, e quella nota più acuta che emettevi nelle risate cristalline, quelle vere, quelle leggere come il battito d’ali di una farfalla nel bel mezzo di un ciclone burrascoso.

Ricordo il tuo carattere incostante, il tuo saperti fare onda placida e carezzevole, marea altalenante che culla, oppure impeto improvviso che travolge e annega, schiuma furente di tempesta che non lascia scampo.
Ricordo il tuo cuore d’oceano: né misericordioso né malvagio, semplicemente selvaggio.

Sì, ricordo piccoli pezzi di te, perché ho scoperto di averli lasciati vivere dentro di me, quasi inconsapevolmente, come si fa con le cose alle quali non si da peso, ma che per qualche motivo non se ne vanno più.

Vorrei poter ancora credere che è bello sognare, senza per questo avere il sentore di star tradendo la vita.
Vorrei augurarmi di rincontrarci un giorno, alle soglie di quel confine labile che da sempre ci separa.

Tua, mia, nostra.

A.




“Tu vivi in me. Questa carta è la tua pelle. Questo inchiostro è il mio sangue.”


(Dal film Jules et Jim)

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