~ ..la Volpe Funambola ammazzaprincipi.. ~
~ Fragile ~

"...Sometimes it feels it would be easier to fall
than to flutter in the air with these wings so weak and torn..."

Original Blog -> Nepenthe


- EviLfloWeR -

* photos on flickr *
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Lunacy Ph

"Do asilo dentro di me come a un nemico che temo d’offendere,
un cuore eccessivamente spontaneo
che sente tutto ciò che sogno come se fosse reale;
che accompagna col piede la melodia
delle canzoni che il mio pensiero canta,
tristi canzoni, come le strade strette quando piove.
"

- F. Pessoa -

~ REMEDY LANE ~

- We’re going nowhere...All the way to nowhere –



"Forse sono l’uomo con le leggendarie quattro mani
Per toccare, per curare, implorare e strangolare.
Ma io non so chi sono,
e tu ancora non sai chi sono..."

F. R.

Aurin

Mi chiamarono Aurin yr Jasel el Redon, ventidue anni or sono, per marchiare la mia esistenza col nome dei miei avi e inchiodarmi a un destino che non ho scelto. In lingua Alzhedo “Aurin” significa custode di sogni, anche se pochi ricordano ancora le simbologie associate all’alfabeto Thorass.
Sono nata nella Perla delle Sabbie, dove il caldo arido di un deserto troppo antico rende le persone subdole e assetate di veleno, prosciugate fin nel midollo e private dei valori che fanno di un uomo qualcosa di più di un burattino in cerca di uno sfarzoso palcoscenico.
Sono una figlia di quella terra splendente baciata dal sole del sud, un fiore troppo selvatico sbocciato tra dune polverose, ma non vi è traccia sulla mia pelle di quel retaggio. Il mio sangue affonda da qualche parte nel lontano nord, e questo mi ha aiutata a non sentirmi mai davvero parte del mondo che ho tanto odiato.
La mia vera nascita non è stata la prima: quella è stata solo una maledizione.
Ho imparato a vivere il giorno in cui ho infranto il velo damascato di ipocrisia, e scavalcato prepotentemente le barriere auree della mia gabbia personale.

Mi chiamai io, questa volta, “Aurin” e basta: una ragazza smarrita senza una vera identità. Una figlia del vento, della terra e delle stelle, in perenne viaggio senza una meta, funambola per scelta ed equilibrista per necessità.
Seguendo Ieriyn alta e splendente nel cielo ho puntato a nord, affondando i miei piedi nel fango, ma senza mai distogliere lo sguardo dall’adunanza di stelle custode dei sogni più belli.
- Quante volte ho puntato il mio arco alle stelle lontane? Chiudi un occhio e mira trattenendo il respiro: se ne prendi una buona, forse i tuoi desideri si avvereranno. Falla cadere, falla morire, sei una cacciatrice e non hai mai afferrato nemmeno un sogno. -
Era il mese della dissolvenza, ricordo le foglie a terra e il rumore dei miei passi che lentamente imparavo a celare. Gravata di un peso troppo grande per le mie spalle esili, ho dovuto lasciare svariate cose per strada: tutto ciò che mi è sempre servito, del resto, me l’ha fornito la natura.

- Voglio cacciare con cuore indomito. Voglio imparare la saggezza delle lontane montagne. Sia il mio cuore una fonte d'amore che scorre inesorabile come linfa sotterranea. -
Ho imparato che la morte mi alitava gelida sul collo ad ogni svolta di sentiero, e che anche la natura che m’aveva accolta nel suo grembo materno era in grado talvolta di demolirmi e sottopormi a prove sempre più ardue.
Ho dovuto affilare i miei artigli ed accettare il mio istinto primordiale: ho iniziato a cacciare, a macchiare la mia pelle del sangue nemico, ad attaccare per prima per sopravvivere, e a braccare la preda per non perdere mai il predominio del cacciatore.

Ho scoperto il “Giardino Selvaggio" ed ho iniziato ad amarlo perdutamente. Vi era bellezza in ogni dove: l’oro del sole cospargeva di polvere luccicante le foglie danzanti, e la rugiada si adagiava sull’erba come diamante. Le acque pure dei ruscelli erano la vita che scorre senza tregua, e i frutti della terra un tesoro di cui mai esser sazi.
Tutto mi sembrava un equilibrio perfetto oscillante tra le più buie tempeste e le più splendenti delle albe. Quel Giardino era ovunque, e io ne ero la guardiana e cacciatrice. Avrei difeso la Bellezza da tutto ciò che di deviato e subdolo avrebbe osato calpestare l’amato suolo.
Avevo una fede a sostenere i miei passi, non più soltanto la disperazione di sopravvivere. E per quella fede, per quel giuramento a me stessa prima che a alla mia Dea, ho affinato i miei sensi e allenato il mio corpo: ho sviluppato doti feline per saggiare il terreno, appetito animalesco per godere dell’ebbrezza della caccia, e coltivato l’istinto del branco per non perdere mai di vista i valori che mi rendono diversa da un qualsiasi vile predatore.

Troppi sentieri ho percorso, e su molti di questi ho lasciato orme silenziose che sono svanite al primo soffio di vento. Nel labirinto di strade che mi ha condotto verso mete che potessero soddisfare la mia curiosità, sempre accesa ed acuta, ho incontrato miriadi di passanti. Alcuni mi hanno solo sfiorata, altri ignorata.
Altri invece mi hanno sbattuto contro con violenza e si sono portati via una piccola parte di me.
A volte ho anche accettato nuove gabbie, provato nuove vite come se fossero abiti che si possono indossare soltanto per un po’, soltanto finché ci si sente bene dentro.
Ma l’istinto che lacerava il mio cuore non dormiva mai, mai si placava, e costantemente cercava di lacerarmi la pelle per uscire di prepotenza a cercare la libertà.
Parola buffa la libertà. Quante volte ho pensato di averla trovata?
Tra le braccia del primo uomo che ho davvero amato, o nel vento che me l’ha portato via, in una casa fatta di mattoni e di affetto, o in un tempio colmo di fedeli e amici coi quali ho condiviso i miei servigi per Lei.

La verità è che dalla maledetta fune tesa tra i paradossi della mia esistenza non sono mai scesa, e per quanto qualcuno un giorno mi abbia insegnato a danzarvi senza timore, credo di non essere mai riuscita a farlo davvero.
Arranco passo dopo passo combattuta tra l’apprensione di non fare un passo falso e il desiderio dilaniante di cadere una volta per tutte.
E mi chiedo se lui salga ancora qualche volta sopra i tetti per guardare le stesse stelle che vedo io, o se abbia sepolto il nostro inverno in fondo al suo cuore e l’abbia dimenticato.

Questo è il mio viaggio, questa è la mia strada. Il sentiero inesplorato che mi ha portato fino a qui: la Valle del Vento Gelido, oltre il dorso del mondo. Il freddo mi penetra nelle ossa, mi squarcia la pelle e mi lecca le ferite con lingua di spine.
Solo un vento impietoso spazia in queste ampie radure innevate, e i miei passi incedono di una lentezza appesantita dal manto dei ricordi che nel silenzio cala sui miei pensieri.
- E’ allora che ti senti invecchiare…quando ti accorgi di avere più ricordi che desideri… -
Il rumore della neve che cede al fardello dei miei passi mi invita a continuare a camminare, mi offre un lago di puro bianco candore inviolato, come una poesia sublime che a nessuno potrò mai raccontare.
Ma quella stessa neve che riempie i miei stanchi occhi di una bellezza appagante, è la stessa neve che uccide e congela le membra, fino a cristallizzare la morte in un’ultima meravigliosa creazione immota.

Non è il freddo che mi preoccupa qui, né la difficoltà di cancellare le mie tracce o il pericolo di sentirsi sempre troppo esposti, più prede che cacciatori. No, è il senso di vuoto che provo, un vuoto che non riesco a riempire di calore appellandomi a ciò che mi porto dentro.
Semino fiori insanguinati in questo Giardino candido, e le mie lame implacabili reclamano altre vittime immeritevoli d’esistere.
Ma i miei piedi sono stremati, e ho bisogno di levarmi questi abiti per infilarmene di caldi e asciutti: rischio di morire ad ogni passo in questo paradiso dimenticato dagli dei, se non controllo il livello di insensibilità della mia pelle. E mi vedo mattone logoro nel muro della città del Giudizio che ci attende dopo questa vita, o prostrata innanzi a Lei a chiedere perdono per non aver mai compreso a pieno come servirla.

*   *   *

La raminga chiuse il taccuino con un gesto secco e lo infilò rapidamente in borsa. Il freddo stava diventando insopportabile, ed Aurin era perfettamente consapevole di quanto rischioso fosse indugiare troppo in quell’immobilità che pure le era stata necessaria per riordinare le idee e scrivere un intimo testamento. Con passo appesantito dal fardello dello zaino colmo di provviste e dal carico delle armi legate alla cinta si incamminò in direzione della grotta sicura che aveva trovato qualche giorno prima. Il rifugio distava poche ore di cammino, e le avrebbe garantito un ottimo riparo per la notte gelida che la attendeva, ma la natura imprevedibile e beffarda non era propensa ad assecondare i suoi piani.
Mentre la ranger avanzava a rilento un vento furioso iniziò a spazzare le ampie radure innevate, sollevando mulinelli di candida neve a ferire il volto della ragazza che incedeva con passo sempre più stremato. Il cielo lentamente si fece di piombo, come se il bianco potesse d’un tratto tramutarsi in nera e opprimente nube, che scendeva a coprire con la desolazione della buia tempesta un luogo dove lo sguardo degli dei non avrebbe osato giungere.

Una delle prime cose che un individuo solitario impara innanzi alla maestosità violenta del rigido nord è che in caso di bufera l’unico modo per salvarsi è trovare riparo immediato. Aurin questo lo sapeva bene: aveva già esplorato la zona e concluse che le restava un’unica possibilità. Una grotta abbastanza vicina, da poter raggiungere prima che l’inferno di neve si scatenasse annientandola, era abitata da un anziano orso preoccupato di proteggere la tana della sua femmina. L’aveva osservato qualche giorno prima, seguendone le orme e poi intrufolandosi nel suo territorio, ed aveva scoperto il motivo della sua aggressività esagerata: una compagna da proteggere nelle vicinanze, forse anche dei piccoli.
L’animale non l’avrebbe mai lasciata entrare, e la cacciatrice non aveva alcuna intenzione di violare la natura intimamente selvaggia e fiera dell’orso attirandolo in trappola. L’unica via che le restava per sopravvivere la conduceva inevitabilmente a combattere, ponendosi al pari della bestia: lottare per vivere, per conquistare una tana che la riparasse dalla tormenta.
In quel momento capì di avere solo sé stessa, il suo istinto ferino, il richiamo atavico alla vita.
Sguainò le lame corte che erano il prolungamento dei suoi stessi artigli, ed affrontò l’animale a viso alto, concedendosi il tempo di fissare i suoi occhi in quelli della bestia, riconoscendovi la stessa antica fierezza.

I movimenti della cacciatrice furono rapidi e letali: si scagliò imprudente contro l’orso che si ergeva maestoso sulle zampe posteriori, spostandosi agile e svelta nonostante il freddo che le attanagliava le membra. L’ebbrezza che la caccia le provocava incendiò il suo cuore alimentando una furia cieca e spietata, ma poi qualcosa le attraversò la mente e per un attimo tentennò. Esitò all’idea di condannare a morte un amore, e questo le costò caro: una zampata violenta le lacerò il braccio, le fece presagire il sapore amaro del sangue che sale alla bocca e la sensazione che tutto possa svanire in un solo momento.
Riuscì a reagire, a colpire con la precisione che una rabbia disperata le permise di avere nonostante tutto. Anche lei aveva un amore da difendere, anche lei aveva qualcuno dal quale tornare: era un’idea limpida e semplice che le si profilava nella testa proprio un istante prima di trionfare.
L’orso morì. La ranger aveva conquistato la sua tana, la vita, l’amore.

Ma il suo sguardo rimase turbato, velato di una profonda tristezza, reso opaco dalla consapevolezza che l’amore e la fede non fanno altro che richiedere sangue. Sempre altro sangue.
E quel rosso acceso che si perdeva affogando tra le sfumature intense della profonda boscaglia aveva tutto un altro peso lì dove il bianco costringeva a vedere la violenza e l’onta che portava.
“E’ la vittoria dei vinti..” – con questo paradossale pensiero crollò su sé stessa, scivolando lentamente con la schiena contro la parete rocciosa, incurante del profondo graffio che aveva sul braccio.
Troppo freddo per sentire dolore. Troppo importante quella lezione di vita per cancellarne le tracce.

Passò qualche minuto prima che riuscisse a riprendere conoscenza. La grotta era completamente silenziosa adesso: la compagna della sua vittima non era stata lì di recente, glielo dissero con chiarezza le orme che esaminò. Una volta sicura di essere completamente sola si affrettò a preparare il suo rifugio per la notte. Con mani gelide ed insensibili si mise a sfregare i legnetti più asciutti che era riuscita a conservare, ripetendo a sé stessa che non aveva alcuna intenzione di morire di freddo. In pochi istanti un timido fuoco prese vita accarezzandole il viso con la dolcezza infinita di una mano calda nel cuore gelido dell’inverno, e tanto bastò per strapparle un delicato sorriso, forse il primo dopo molti giorni.
Rincuorata dalla danza delle fiamme, Aurin sciolse i suoi lunghi capelli rossi, prese la coperta più pesante che portava con sé, e si abbandonò a quel torpore lasciando che il suo sguardo profondo come il verde della foresta si smarrisse in quella che era solo un’enorme, desolata, distesa di bianco.
La tempesta si era calmata adesso, solo alcuni mulinelli di neve ancora s’alzavano come spettri silenti che danzavano per richiamare indietro la bufera, così simili agli spettri che la ragazza poteva vedere ogni volta che chiudeva gli occhi: fantasmi lontani, amori perduti, braccia estranee che cercavano di afferrare ciò che non sarebbe mai potuto essere loro.

Si riscosse dal torpore solo dopo qualche ora, a tempesta completamente finita.
“Devi alzarti adesso, devi cambiarti e medicarti le ferite. Lo squarcio sul braccio sinistro è una scia di rubino ghiacciata, scintillante sulla tua pelle diafana. Alzati.”
Parlava a sé stessa da mesi ormai, per riempire il vuoto della solitudine di un viaggio che aveva fortemente voluto ma che la stava mettendo a dura prova. Per trovare la forza necessaria pensò ai suoi compagni animali, che la aspettavano poco distante in una valle tranquilla. Decise di rimettersi in cammino per raggiungerli al più presto.
Nella sua mente stava infatti iniziando a prendere forma un’idea che si traduceva sempre nella stessa ricorrente domanda: “Dov’è casa mia?”
La questione però non era dove, ma quale, e nella confusione della sua vita le risposte erano state poche e difficilmente comprensibili.
Quando fu nei pressi della valle il cielo terso e la bufera soltanto un ricordo. Un fischio sommesso e cadenzato in due tonalità ben precise bastò a far comparire la sagoma di Arax al galoppo: un destriero dal manto candido che sfigurava al confronto della purezza del nord, e gli occhi pieni di una vecchiaia incombente, lucidi come quelli di Aurin, coperti di una patina che si addensa sullo sguardo di chi ha visto molte, troppe cose.
“Portami a casa Arax.”
Per lui non era mai stato un quesito difficile. Ai suoi comandi rispondeva con movimenti precisi, sempre gli stessi. Per lui era tutto più semplice.

Quanti mesi erano passati dal giorno della partenza per il nord? Ormai aveva perso il conto. Ma poteva affermare con sicurezza che ce ne mise almeno un altro per tornare verso la città in cui aveva abitato prima di sentire ancora il bisogno di scappare, sempre più lontano, verso luoghi inesplorati. La stessa città in cui forse ancora lui la aspettava, affacciandosi ogni notte sul tetto della loro piccola torre, guardando verso le stelle lontane nel silenzio di chi attende un ritorno che mai gli era stato promesso.
Le alte mura di cinta distavano ormai pochi minuti al galoppo quando decise di fermarsi nei pressi della grande foresta, al limitare del bosco. Non era ancora pronta per rivedere la grande città.

Tra i rami fitti della foresta filtravano i raggi di un debole sole primaverile che illuminava senza calore. Aurin aveva l’aria di una selvaggia senza sembrarlo davvero: certo, l’armatura di cuoio era consumata, i capelli scompigliati e qualche macchia di fango e sangue rappreso macchiavano la pelle, ma il suo viso era delicato e il suo passo leggero, le sue movenze sinuose come quelle di un fantasma che leggiadro attraversa il bosco.
Aveva lo sguardo di chi ha accumulato in un certo bizzarro modo una saggezza che contrasta coi lineamenti troppo giovani del viso, e si sarebbe detto che vi fosse una qualche bellezza sublime dei vinti ad illuminare il suo volto.
Silenziosa avanzò trascinando le redini del suo destriero, fino ad un rifugio dove trovare ristoro.
Il fuoco divorava lentamente i pochi rami spezzati che era riuscita a trovare. Prima di trasformarsi in carbone si contorcevano in una strana danza, lasciandosi consumare con spietata calma, e a lei piaceva starli a guardare.
Col calore del fuoco lo strato di neve sottile, retaggio dell’inverno ormai finito, iniziava a sciogliersi sotto i suoi piedi, e quello che era stato immacolato candore diventava una strana fanghiglia liquida nella quale affondare.

D’un tratto il fuoco si piegò arrendevole ad una folata di vento innaturale. I sensi acuti della cacciatrice percepirono dei chiari passi e ne intuirono la direzione. Si alzò e avanzò cauta, mimetizzandosi nella boscaglia per essere meno vulnerabile mentre cercava di trovare le tracce dell’indesiderato ospite. Ma non c’era nessun pericolo: quando tornò al falò qualcuno aveva lasciato qualcosa.

Si sedette e arrendevole lasciò cadere le difese. Sapeva benissimo che era stato lui, e presagì il male che gli avrebbe procurato aprire quel pacchetto. Quasi dimenticò dov’era, pur sapendo quanto fosse fatale. Lui aveva lo strano potere di annullarla, di farla sentire disarmata e predata ovunque fosse. Lo odiava, e lo amava, anche.
Lesse il biglietto solo dopo aver fatto un profondo respiro. “…possano difenderti loro, se non mi vorrai più al tuo fianco.”
Tirò fuori entrambe le armi, le osservò illuminate dai riflessi del fuoco, le ammirò e le corteggiò con lo sguardo, prima di impugnarle con più decisione. Le riempivano perfettamente quelle mani che le sembravano tanto vuote, e le lame affilate tagliavano il vento sussurrando melodie sottili.
“Mi disarmi e poi cerchi di riparare il danno?”
Sorrise e scosse la testa. Erano due lame sublimi: sarebbero diventate i suoi nuovi artigli, che ancora attendevano immacolati il loro battesimo di sangue.
Passò le dita sul filo della lama più scura, fino a che il sangue uscì a tingerne il profilo di rosso. Le sembrò un connubio splendido, e il sapore del sangue che ora sentiva sulla lingua, dopo essersi leccata il dito, era una promessa certa di ciò che la aspettava.
Eccolo lì il paradosso della sua esistenza: la necessità di combattere per vivere e allo stesso tempo l’odio per la maledizione che questa comportava.
“Detesto queste mani intrise di sangue. Detesto ciò che i miei occhi hanno visto. Fino alle mie ginocchia nella melma e nel fango. Quanto male fa purificarsi?”
Sussurò a labbra strette questa disarmante confessione e sì sentì come se stesse nutrendo la bestia perfetta: dissanguata abbastanza per continuare ad uccidere. Ripensò alla prima volta che aveva conficcato una lama nel petto di qualcuno per non essere lei la prima a morire.
Era solo una ragazzina. E aveva foreste, laghi e vallate che erano solamente sue, e voleva correre attraverso i giorni d’estate catturando ricordi per gli anni a venire.

Spense il fuoco e sparse le ceneri. Calpestarle era come seppellire i residui di una vita che non voleva più.
“Sono stanca di scappare. Vieni fuori, so che mi stai ancora osservando.”
Un ramoscello scricchiolò poco più in là, e il velo magico che celava l’uomo nell’ombra si dissolse. Venizar il lupo, lo stregone dallo sguardo buio e l’indole selvatica, la stava osservando mestamente. Nel vederlo passeggiare per le vie della grande città si sarebbe certo pensato che fosse un uomo distinto, ben vestito, educato. Ma Venizar era un pozzo di misteri e di inquietudini inesplorate, un burattino senziente nelle mani della potente dea della magia. Cosa poteva centrare tutto questo con la raminga cacciatrice dalla chioma di volpe? A prima vista assolutamente niente. Quel che Aurin aveva trovato in lui andava oltre le semplici apparenze, scavava nell’indole atavica che genera l’stinto del cacciatore. Per lei Venizar era semplicemente un lupo, solitario come non ne esistono, perché un lupo che si stacca dal branco lo fa solo per crearsene uno nuovo. L’istinto le aveva detto di fidarsi di lui, e così aveva fatto. Innamorarsi era stata una conseguenza non prevista.

Vedere adesso il suo sguardo rendeva tutto perfettamente chiaro: ancora una volta il suo cuore rinnovava silenziosamente l’antica promessa.
Sapeva che un legame profondo la univa a lui, nonostante cercasse di scappare rincorrendo le tracce della libertà che aveva perduto o che forse non aveva mai avuto. Capì che lo amava ancora, e che in lui ci sarebbe sempre stato un pezzetto di casa sua.
Anche se lui l’aveva tradita.
Lui, il grande amore che le aveva permesso di sopravvivere in nome di qualcosa di più grande, e allo stesso tempo il boia che l’aveva lasciata nuda e disarmata di fronte all’evidenza che l’amore puro non esiste. Per un attimo si chiese se sarebbe sopravvissuta, lassù al nord, contro quel grande orso, se non ci fosse stato lui nella sua testa.

Venizar il Lupo si avvicinò puntando lo sguardo profondo e inquieto dritto negli occhi schivi di lei. Per qualche istante fu come se niente fosse cambiato, come se ora potessero stringersi e amarsi come avevano sempre fatto. Ma il fantasma della fiducia tradita aleggiava tra loro, così Venizar si avvicinò, e quasi esitò prima di avere il coraggio di toccare il volto della ragazza con una fuggevole carezza affettuosa.
“Sono felice di rivederti tutta intera, mia Sihaya.”
Sentirsi chiamare così la infastidiva, perché le ricordava le promesse fatte e poi infrante. Nonostante questo, la vicinanza di lui bastò a farla sentire indifesa e a toglierle la voglia di litigare ancora. In cuor suo era altrettanto felice di rivederlo, ma non lo ammise.
“Avevo bisogno di fare questo viaggio da sola, ho compreso molte cose. E…mi sento più forte.”
Lui sembrava non ascoltare le sue parole, come se la conoscesse abbastanza bene da sapere che erano solo tasselli di un muro eretto per mantenere le distanze. Parole vuote, quel che contava davvero era il suo sguardo velato di tristezza.
La osservò attentamente scrutando ogni parte del suo corpo come per sincerarsi che fosse davvero tutta intera, e non tardò ad accorgersi della brutta ferita sul braccio.
“Più forte? A quale prezzo?” - La rimproverò con apprensione alludendo con lo sguardo alla ferita.
“Il prezzo di capire chi sono, cosa voglio, e per cosa combatto.”
“Suppongo che non condividerai questa conoscenza con me vero?”
Un sorriso amaro accompagnò le ultime parole dell’uomo, dopodiché si zittì e con l’aria corrucciata si mise a sedere di fronte a lei, dall’altra parte del falò. Poi insistette:
“Non mi hai ancora perdonato per quello che ti ho fatto.”
Non era una domanda, ma una consapevolezza.
“Non ho perdonato né te né me.”
Suonò come un’ammissione sofferta, e lo era. L’amore negli occhi di lui, nonostante tutto, era una pugnalata in pieno petto, e la consapevolezza che forse avrebbe potuto evitare tutta quella sofferenza era una certezza così lancinante da togliere il fiato. Non era la ferita di carne e sangue a compromettere la sua incolumità, bensì quella che Venizar lo stregone le aveva inflitto lasciandola disarmata, priva di fiducia nei confronti dell’unica persona che pensava di conoscere.

Il silenzio  tra i due si fece pesante, mentre le fiamme danzavano in spasmi convulsi cercando di lottare contro la pioggia fine e leggera che d’un tratto iniziò a cadere.
Gli occhi della raminga non sapevano resistere al richiamo di quei caldi bagliori distruttivi che in un giorno lontano nel tempo le avevano donato la libertà. Si alzò e andò a sedere accanto a lui, così da poter stringere la mano nella sua e sperare che il calore del suo corpo riuscisse a riportarla presto indietro dal fiume di ricordi che dal fuoco le si stava riversando addosso.
Rinvigorito dal gesto di lei, Venizar trovò il coraggio di insistere:
“Non è cambiato niente per me, Sihaya. Voglio che tu sappia almeno questo. Ti prometto di esserci, sempre.”
Aurin si chiuse ancora più in sé stessa e chinò il viso verso la terra umida. Come spiegargli la sensazione di essere piena di cicatrici sotto la morbida pelle? Di aver aperto le vene per lasciarvi scorrere ogni cosa, per annegarvi il dolore e mischiare insieme sangue e veleno?
Una mente leggera che  a volte vola su ali di farfalla alla ricerca dei sogni, ed un cuore che pesa sempre come un macigno. Un cuore che non dimentica mai.
“Dovresti saperlo: un lupo fatica a dimenticare…ogni, minima, cosa.”
“Allora ricorda, amore mio, che il fuoco che sembra spento spesso dorme sotto la cenere. Il nostro fuoco non è spento, te lo leggo negli occhi.”

Il Lupo non si aspettava una risposta, sapeva perfettamente quanto testarda fosse la sua donna. Ora che la sera era calata restò in silenzio, guardando il cielo trapuntato di stelle. Lei invece tornò a fissare la cenere sotto i suoi piedi, vedendovi tutto ciò che non riusciva a cancellare: le fiamme corrodere la casa che aveva odiato, la fame e la disperazione iniziali, le carezze del primo amore perdute per sempre, le promesse per la vita e i sogni infranti, l’amarezza di sentirsi traditi e violati in ciò che si ha di più caro, e infine le nuove promesse appese a fragili fili tesi verso un futuro incerto.
“L’amore e il rimorso sono così simili. Come queste dannate braci sopravvivono sempre.”
Si alzò di scatto, attizzò i carboni rimasti e scoprì le deboli fiammelle che arrancavano per respirare sotto la cenere. Diede un calcio alla terra friabile sotto i piedi e coprì i residui del focolare fino ad estinguerlo, per poi calpestarlo e proseguire oltre.

“Ho bisogno di cacciare. Sei con me?”
Sapeva perfettamente che anche lui non aspettava altro. Era solo ignaro di tutto ciò che le stava attraversando la mente, ma la ragazza era troppo esausta per continuare a gettare addosso agli altri il proprio dolore.
Lui le sorrise ampiamente e il suo sguardo si accese di una scintilla di indomabile desiderio. Si alzò altrettanto rapidamente e le balzò di fronte, avvicinando così tanto il viso a quello di lei che resistere alla tentazione di baciarla fu una prova titanica.
“Fammi vedere cosa hai imparato lassù.”
L’occhiata divertita di sfida accese nella cacciatrice una brama irrefrenabile.
“Sai cosa ho capito nell’estremo nord? Che voglio cacciare con cuore indomito, voglio continuare a farmi largo tra le sterpi e attraversare la boscaglia più fitta, voglio trafiggere e calpestare tutto ciò che infesta l’enorme giardino consacrato alla selvaggia bellezza della natura.
Voglio lasciarmi alle spalle tutto ciò che indegno non merita che d’esser sepolto: sia esso un cadavere putrido d’orco o il marcio delle persone immeritevoli di fiducia.”
Nel pronunciare queste parole si allontanò da lui come per scongiurare il pericolo di cedere a qualcosa di cui poi si sarebbe pentita, ma lui le sorrise dolcemente e allontanandosi a sua volta replicò:
“Un lupo caccia con passione: è per difendere la sua tana e i suoi compagni che lotta fino allo stremo dando tutto di sé. Il tuo cuore è sempre stato indomito e appassionato, Sihaya. E’ al tuo spirito che devi permettere di essere libero e implacabile, la tua vita epurata dai compromessi.”
Aurin gli rivolse un’occhiata docile che splendeva quasi come un perdono. Nel suo cuore ringraziava silenziosamente il Lupo che aveva deciso di camminarle sempre a fianco.
Però la via si stava facendo sempre più tortuosa e il suo incedere implacabile: ad ogni passo l’indulgenza della ragazza andava scemando, e il pesante orgoglio di essere ciò che aveva scelto diveniva sempre più imponente.

“Venendo qui ho trovato un accampamento dei barbari Utard occupato dagli orchi. Devono aver approfittato dell’assenza degli uomini impegnati in qualche battaglia. Quella feccia non merita di vivere un giorno di più.”
Venizar annuì e raccolse le sue poche cose per poi raccogliersi qualche minuto in una concentrazione necessaria a richiamare a sé l’antico potere magico. Ad Aurin bastò anche meno per riempire la faretra di frecce, assicurare le due lame corte alla cinta in caso di incontri ravvicinati, e stringere le cinghie dell’armatura sui polsi. Era sempre pronta a combattere, per tutta la sua vita non aveva fatto altro.

Raggiunsero l’accampamento occupato dagli orchi avvicinandosi di soppiatto e senza farsi notare. Aurin salì tra i rami più alti di un antico albero che si affacciava sulla recinzione e attese in silenzio, accarezzando il legno pregiato e leggerissimo del suo arco elfico. Era perfettamente consapevole che il suo compagno sapeva ciò che stava facendo, e non aveva mai dubitato del potenziale dei suoi poteri magici, al massimo aveva nutrito dubbi sulla sua capacità di controllo mentale. Ma in quel momento tutto ciò che le interessava era spazzare via la razza abominevole che si trovava dove non avrebbe dovuto essere.
Dall’accampamento proveniva un fetore insopportabile, ma il brusio tranquillo degli orchi affaccendati era un chiaro segnale che non si aspettavano visite e sarebbe stato quindi un gioco da ragazzi attaccarli di sorpresa.
Venizar  fece appello alla trama magica che gli scorreva nelle vene, si celò alla vista e sgusciò oltre il cancello. Una volta raggiunto il centro dell’accampamento liberò dalle sue mani protese verso il cielo una scarica potentissima di fulmini, che in un solo istante spazzò via gli esemplari d’orco più deboli e ferì tutti gli altri. Approfittando dell’effetto sorpresa ebbe poi tutto il tempo di sguainare la sciabola e menare fendenti contro gli orchi disorganizzati, mentre la ranger lo copriva con una pioggia di frecce precise e letali.
Fu una vera strage, la maggior parte dell’esercito orchesco fu sterminata senza fatica, alcuni provarono a scappare ma Aurin balzò all’ingresso principale dell’accampamento e sguainate entrambe le spade fece in modo che nessuno potesse sottrarsi al loro giudizio.

Quando ormai la vittoria sembrava certa, un tamburo iniziò a scandire alcuni vibranti colpi. Aurin corse verso Venizar scavalcando i cadaveri fetidi degli orchi, e i due si misero schiena contro schiena. Capirono subito che la vera preda, quella che li avrebbe resi orgogliosi della loro caccia, doveva ancora arrivare.
La sicurezza di poter trionfare pulsava lentamente nelle vene finché senza quasi rendersene conto si trovarono dinnanzi la bestia che stavano cercando: un ogre massiccio e imponente che incedeva furioso, facendo tremare il terreno. L’enorme bestia spalancò le sue fauci bavose, quasi in un marcio sorriso, e dilatò le narici soffiando con aria di sfida.
Cacciatori o prede? Chi era cosa? Il Lupo mostrò le zanne, ballando la sua danza mortale, appiattendosi e poi sgusciando via rapido, colpendo senza farsi colpire. Aurin assestò qualche colpo critico con i suoi metallici artigli, dopodiché si allontanò rapida, ed una moltitudine di frecce sibilò nell’aria conficcandosi nella carne del colosso. Tenuto in piedi ormai soltanto dalla collera, l’ogre in un attimo fatidico esitò, e fu allora che i due cacciatori implacabili colsero l’attimo e lo atterrarono.
Il cuore batteva forte e gli sguardi si cercarono, complici.

Una volta fuori dai cancelli osservarono l’immagine della loro vittoria: sangue e cadaveri, e rantoli sommessi. Aurin non poteva sopportare la visione di quell’orrore che seppur sconfitto continuava a contaminare la bellezza del suo adorato Giardino. Volse un’occhiata a Venizar che capì all’istante i suoi desideri. Lo stregone volse il palmo aperto verso il cielo limpidamente buio, e una piccola fiamma inoffensiva prese vita. La ranger incoccò una freccia, la accese alla fiammella, e scoccando trasformò la visione di orrore e morte in un immenso falò nella notte.
Stettero a guardare insieme le fiamme che crescevano poco a poco, vicini.
“Dovevo purificare questo luogo, ma ho sbagliato. Ho tolto la casa a chi prima viveva qui…sarebbero potuti tornare…”
Venizar la abbracciò prima di permetterle di continuare.
“Una cosa selvaggia non si è mai dispiaciuta di nulla.”
La ragazza sapeva che lui aveva ragione. Il suo era un cuore ribelle, né misericordioso né malvagio, semplicemente selvaggio. Ora che aveva imparato a cacciare con cuore indomito, la sua anima poteva finalmente trovare pace.
Si strinse a lui e tornarono a guardare le fiamme che divampavano in bagliori maestosi.
Se avessero avuto la pelle ricoperta di peli, avrebbero di certo ululato.


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